Active Longevity Institute

Non siamo tutti più vecchi

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I dati demografici dicono una cosa, quelli biologici una cosa fondamentalmente diversa. Come leggere l’invecchiamento della società.

di Emanuela Notari – A.L.I. Active Longevity Institute

L’invecchiamento della società che sta interessando moltissimi paesi al mondo, primi tra tutti Giappone e Italia, è il risultato della combinazione di 2 elementi:


Se la base giovane della piramide demografica si riduce e la punta anziana si allarga è ovvio che il risultato è un invecchiamento della popolazione. Demograficamente parlando.

La demografia, in questo caso, fotografa la società dal punto di vista anagrafico. Ma ci sono altri due fattori da tenere in conto:


1. Questo ci porta a una prima conclusione importante. Se la società è anagraficamente più vecchia, è però biologicamente più giovane di quanto si possa pensare. Tradotto, l’invecchiamento della popolazione non indica una società biologicamente più vecchia, ma una società che invecchia più lentamente.

La recente pandemia non cambia questo andamento, pur avendo falcidiato soprattutto le persone con patologie pregresse che sono inevitabilmente più numerose, generalmente, tra le fasce più anziane della popolazione.

Quello che però forse il Covid ha modificato è l’interesse verso questo gruppo di persone, accendendo l’attenzione per gli over 60, che normalmente non ne riscuotono alcuna.

Perché non ne riscuotono? Perché, ignorando la realtà che ci circonda e dando invece ampio spazio al nostro immaginario collettivo fermo alla seconda metà del secolo scorso, continuiamo a figurarci la vecchiaia come una breve parentesi di fragilità e immobilità che separa la vita attiva dal trapasso.

Facciamo allora l’esercizio di liberare la mente e osservare la vecchiaia da vicino.

Noteremo che c’è un grandissimo gruppo di persone, la fascia più giovane della cosiddetta popolazione anziana, appunto i baby boomers, che non corrisponde per nulla a quell’immaginario: gli over 60 di oggi, almeno per un’ulteriore quindicina d’anni, non hanno nessun tratto di debolezza o fragilità, tanto meno di immobilità; sono ancora molto attivi e soprattutto hanno una propensione attiva e addirittura proattiva alla vita. Di fatto sono la generazione che ha animato il 68 e gli anni 70 e che ha costruito il mondo di oggi come lo conosciamo, con tutti i suoi difetti ma anche con tutte le sue rivoluzioni, di costume e tecnologiche.

Più in là, dai 75 in poi se proprio vogliamo usare le fasce di età, le persone soffrono più facilmente, ma non necessariamente, degli acciacchi dell’età, fino a patologie più serie nella parte anagraficamente più estrema. Eppure, quanti 90enni hanno riempito le pagine dei giornali in questi giorni di narrazione del lock-down raccontandoci con perfetta lucidità  i loro ricordi di ben altre emergenze e ben altre sospensioni delle libertà individuali ma anche, ed è ciò che dovremmo notare, del loro presente pieno di idee, cultura e lavoro, tessuto quotidianamente in silenzio, incuranti dell’iconografia classica che li vorrebbe malfermi su gambe e pensieri, in paziente attesa del dopo.

Questa parte dei nostri senior è quella che non a caso si chiama “generazione silenziosa” (i nati tra il 1928 e il 1945). Meno esigente e arrogante dei baby boomers, più avvezza al sacrificio e per definizione a rimboccarsi le maniche, sono quelli che hanno fisicamente ricostruito il paese dopo l’ultima grande guerra e allevato quei figli che li avrebbero sopresi con le loro rivoluzioni.

Non si curano di non avere un posto riconosciuto nella società, che li commemora come defunti di quando in quando, perché vivono un eterno presente, nutrendosi di pochi ricordi ben selezionati e della capacità di non aspettarsi più niente dal futuro.

I 18 milioni di italiani circa che hanno superato i 60 anni non sono quindi affatto una massa indifferenziata di anziani marginali rispetto alla vita del paese. All’interno di questa vasta fetta di popolazione, che rappresenta un non irrisorio 30% del totale, esistono generazioni diverse con caratteristiche e aspettative diverse che, erroneamente, istituzioni e aziende guardano con occhi miopi, non distinguendo alcuna differenza.

Bisognerebbe probabilmente comprendere che, per le ragioni elencate nella prima parte di questa riflessione, la vecchiaia in senso novecentesco si è spostata in là nel tempo e che probabilmente sarebbe corretto farla partire almeno 10 anni dopo l’attuale categoria demografica. Non ci sono vecchi di 65 anni.

E anche dopo, quando la vecchiaia si può pronunciare senza essere anacronistici, ci sono tante forme di vecchiaia quante le condizioni ambientali, culturali, cliniche e piscologiche in cui è maturata. Non esiste più un modello univoco di vecchiaia.

2. Seconda conclusione: occorre guardare alla vecchiaia con lenti bifocali, i più prossimi non sono ancora vecchi e i più lontani lo sono in modo completamente diverso. Quindi nessuna azione di governo, di marketing, di comunicazione può parlare agli over 60 tutti insieme, allo stesso modo.

Infine c’è un’altra novità che, salvo altre catastrofi, caratterizzerà questo secolo e forse questo terzo millennio: una longevità assolutamente inedita costringerà tutti a pensare alla propria vecchiaia in modo totalmente diverso.

Meno giovani e più anziani, sempre più anziani, significa un costo per il sistema previdenziale e sanitario che rischia di cadere sulle esili spalle di una popolazione in età lavorativa sempre più striminzita e sempre più in difficoltà per le condizioni del mercato del lavoro, la quale dovrà continuare a pagare le attuali pensioni per la quota, e spesso la totalità, ancora calcolate con il sistema retributivo e, al contempo, mettere da parte per sé perché con il sistema contributivo le pensioni non saranno più sufficienti a garantire il loro tenore di vita.

Ma questa è una faccia della medaglia.

La fascia di popolazione over 65 detiene in termini generali la maggior parte della ricchezza degli italiani. A fronte di tanti anziani che fanno fatica a tirare fine mese con la loro pensione, ce ne sono molti di più che possiedono la maggiore parte del mercato immobiliare italiano e una vastissima liquidità, sempre maggiore, che vorrebbero investire ma non sanno come.

Secondo il rapporto Censis per TenderCapital su dati di Banca d’Italia dell’ottobre scorso, le famiglie dove il percettore di reddito è un pensionato (37,2%):

Infine, molti di loro sono gli attuali titolari o conduttori o consiglieri di amministrazione di quelle PMI che costituiscono il tessuto industriale di questo paese.

3. E questo ci porta a una terza e ultima conclusione: se non vogliamo che l’invecchiamento della popolazione sia solo un peso previdenziale e sanitario per il paese, dovremmo valorizzare questa ricchezza traducendola in spinta economica per ripartire.

Guardiamo ai senior per il loro know-how prima che sparisca per sempre con loro, per la loro esperienza imprenditoriale, per la loro ricerca di investimenti sostenibili in tutti i sensi e per la loro disponibilità a sostenere le startup più promettenti.

Da qui può ripartire il paese. Si chiama silver economy ed è già una risorsa riconosciuta in molti paesi più avanti di noi.

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