L’emergenza Covid 19 ha sicuramente fatto emergere una serie di fattori culturali che fino ad oggi erano pressoché ignorati, soprattutto da noi, e che questa tragedia ha messo così in evidenza da suscitare dibattiti e polemiche:
- il primo fattore è la tendenza a far coincidere vecchio con fragile, prescindendo quasi dalla situazione biologica e clinica del soggetto. Ci ricordiamo quando ha cominciato a girare la notizia che gli ospedali, non avendo abbastanza respiratori per tutti, li avrebbero negati agli over 60. I testi che si occupano di longevità insistono da tempo sulla necessità di distinguere l’età cronologica da quella biologica in un’epoca in cui la vecchiaia non dura più 10 anni ma magari 25/30, con infinite sfumature di grigio, e dove l’ambiente, la cultura, la prevenzione e l’alimentazione – a parità di età cronologica – determinano situazioni cliniche molto diverse tra loro;
- il secondo fattore sono i protocolli di guerra, tacitamente adottati nell’emergenza in tutto il mondo, che davanti all’impossibilità di curare tutti scelgono di sacrificare i vecchi. Frutto di una lettura del tempo puramente lineare e di un senso della vita puramente produttivistico, si giustificavano, appunto, in tempi di guerra e di economie rurali che privilegiavano la forza fisica e la produttività manuale;
- in questa lettura del tempo in senso puramente lineare, la vecchiaia è interpretata solo come tempo di vita residuo e mai come esperienza di vita maturata; chi sei stato conta niente rispetto a chi potresti essere. Se la lettura lineare del tempo di vita dice che il tuo biglietto sta per scadere, non vali la pena, a prescindere da quello che potresti ancora dare o insegnare.
Intervista a Nicola Palmarini, direttore dell’ UK National Innovation Centre for Ageing
Questi pregiudizi culturali ci sono sempre stati, ma il Covid 19 li ha fatti emergere tanto violentemente che ora vengono dibattuti ovunque. Ma c’è qualcosa che il Covid 19 ha cambiato rispetto alla narrativa tuttora vigente della terza età? qualche progresso che ha segnato, o ha solo fatto precipitare, aggravandoli, i pregiudizi sull’età?
Lo chiediamo a un esperto, Nicola Palmarini, direttore dell’UK National Innovation Centre for Ageing
Da dove emerge questa onda di ritorno, questa specie di controcultura che promuove una rivalutazione degli anziani, appare abbastanza chiaro da un esercizio di data analysis sull’utilizzo dei social media che proprio la UK National Innovation Centre for Ageing ha svolto. Naturalmente la salvaguardia della privacy degli utenti rende complicata un’analisi demografica dettagliata, ma è pur sempre possibile, attraverso la data di compleanno inserita nella scheda anagrafica, avere un’idea per grandi linee di chi sta animando questa specie di rivolta culturale.
In qualche modo quindi il Covid 19 ha fatto emergere quel pregiudizio che va sotto il nome provvisorio di ageismo (brutta traduzione di ageism) anche in paesi dove si faceva finta che questa cosa non esistesse, dove sopravvive l’idea del 65enne anziano di 50 anni fa, ignorando il fatto che, per ogni decennio degli ultimi 50 anni, il progresso medico scientifico e le migliori condizioni di vita ci hanno permesso di guadagnare 2 anni di vita in salute in più, 2 ogni 10…
Certo anche questo pregiudizio, questa specie di razzismo per età, come molte altre forme di razzismo che in questi giorni gridano vendetta dalle dirette dei Tg, viene da lontano e rischia di rimanere con noi ancora per molto tempo, esattamente come i pregiudizi verso le donne e quelli verso i neri o il sud del mondo. Interessante, a questo proposito, il racconto di Nicola Palmarini del caso emblematico dell’addestramento diciamo “morale” delle macchine senza pilota.