L’ultimo rapporto sul bilancio di sistema previdenziale avverte: sostenibilità in cambio di responsabilità demografica
È appena stato presentato l’Undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali. Un appuntamento importante tenutosi nella sala stampa della Camera dei Deputati. La presentazione ha evidenziato tre punti cruciali:
- aumenta il numero dei pensionati, oggi 16,131 milioni, il che ci porta a un rapporto di 1 pensionato ogni 3,65 residenti italiani;
- prosegue la netta risalita del numero degli occupati pari a 23,298 milioni, praticamente il 60,4% della popolazione in età lavorativa. Un bel traguardo rispetto al passato, ma ricordiamoci che ci confrontiamo con una media europea del 70,4%;
- il che ci porta a 1,44 persone occupate per ogni pensionato.
ll titolo, che accompagna il rapporto sui media, è incoraggiante: il sistema previdenziale italiano è sostenibile, purché le età di pensionamento siano coerenti con la demografia.
Bene, ma solo se tutti comprendiamo quale transizione stiamo vivendo.
A chi dice ho pagato le tasse per una vita, ho diritto di andare in pensione il prima possibile
Le riforme previdenziali hanno prodotto due grandi cambiamenti: il primo, se la vita si allunga si allunga anche il ciclo professionale; il secondo, ognuno va in pensione con la riserva economica che si è creato con la propria contribuzione. Tradotto, non si fanno più regali, né nel quanto né nel per quanto.
Eh sì perché chi come i nostri nonni o genitori è andato in pensione con il sistema di calcolo retributivo, che parametrava il reddito pensionistico alla media degli ultimi stipendi, ha avuto dei denari regalati se ha vissuto rispettando l’aspettativa media. Chi è andato in pensione mettiamo a 55 o 60 anni con questo sistema di calcolo e al momento della pensione se ne trova davanti ancora 25/30 di vita gode di un surplus di reddito rispetto a quanto ha davvero messo da parte con la contribuzione obbligatoria, regalo che i nostri figli e nipoti non avranno. Questa regola poteva valere, infatti, quando si andava in pensione con un’aspettativa di vita residua di 10/15 anni e quando il Paese produceva tanti bambini e pochi anziani. Eh sì, perché il nostro sistema pensionistico prevede che siano i lavoratori attuali a pagare, con i propri contributi, le pensioni attuali; si chiama sistema a ripartizione. Se aumento dell’aspettativa di vita da una parte e denatalità dall’altra scompigliano i fattori del rapporto – sempre più pensionati sempre meno lavoratori – il sistema non tiene più.
Nel momento in cui smettiamo di fare figli ma la nostra aspettativa di vita continua a crescere, il patto generazionale comincia a incrinarsi. Per tanto, troppo tempo si è ignorata la questione e adesso bisogna correre ai ripari. Ecco perché il cambio del sistema di calcolo e l’adeguamento dell’età pensionistica al crescere della longevità. Misura, quest’ultima, che il rapporto in questione apprezza ma avvisando che se è un bene che l’età pensionistica sia stata portata a 67 anni, lo è un po’ meno che, ciò nonostante, l’età media effettiva di pensionamento sia 63 anni. Troppo stratagemmi di pre-pensionamento. Legali, per carità. Ma insensati.
Perché dobbiamo riflettere su questi concetti?
Perché il sistema di calcolo su base contributiva penalizza, ovviamente, le persone che hanno interruzioni di carriera o lavorano part time, le donne e i giovani, e perché per lavorare più a lungo occorre dismettere l’idea del vecchio ciclo di vita: studi, lavoro, pensione. Niente sarà più così lineare nelle vite delle generazioni meno anziane, al lavoro si alternano periodi di non occupazione (e non contribuzione) e nemmeno la formazione che ci facciamo nei primi 25 anni di vita è più sufficiente in un mondo che cambia a una velocità del tutto inedita. Vuol dire continuare a formarsi e aggiornare le proprie competenze, durante la carriera lavorativa.
Ma vuol dire anche un’altra cosa che renderà complicata la vita dei più giovani e allo stesso tempo potrebbe dare maggiore consapevolezza ai più senior per affrontare questi cambiamenti ai propri piani di pensionamento. La pensione pubblica non solo arriva sempre più tardi, ma si riduce. Perché il calcolo contributivo non aiuta a fare cassa e l’incertezza nella continuità contributiva nemmeno. Quindi la pensione pubblica farà sempre più fatica a garantire il tenore di vita e con il tempo aumenterà il ruolo della previdenza integrativa. Quella di categoria, per i lavoratori dipendenti che ne hanno diritto per accordi in sede di contratti collettivi, e quella privata (casse professionali e/o iniziativa individuale) per i lavoratori autonomi.
Cambiare il paradigma
La pensione pubblica finirà per rivestire il ruolo di pensione integrativa e quella che fino ad oggi abbiamo considerato (scarsamente) pensione integrativa sarà la pensione più importante. Diventa quindi cruciale farsene carico, iscrivendosi a un fondo pensione, e versarci il TFR, tanto per cominciare. Invece solo un terzo dei lavoratori italiani ha un fondo pensione e solo un quarto continua ad alimentarlo con versamenti. E i più giovani sembrano non curarsi di riallocare il proprio TFR correndo il rischio di lasciare nello stesso campo di interessi stipendio e indennità di fine rapporto. Il contrario di quanto vorrebbe la regola della diversificazione dei propri investimenti.
Ma ogni cosa, anche la più critica, ha un versante al sole. Lavorare più a lungo vuol dire che il lavoro dovrà cambiare – sta già cambiando – per garantire maggiore flessibilità di luogo e di modalità, di tempi e di alternanza con la formazione continua, con una prospettiva di opzioni di lavoro autonomo part time, per chi vuole, a integrazione della pensione per i primi anni di quiescenza, quando ci sono ancora energie e interessi a rimanere attivi. Eh sì, perché lavorare più a lungo vuol dire anche ritardare l’invecchiamento biologico, cioè la caduta delle energie fisiche e mentali e l’esposizione a rischi di patologie croniche legate all’invecchiamento.
Vuol dire anche farsi carico delle transizioni che stiamo vivendo in modo responsabile, dando una chance alle generazioni che abbiamo messo al mondo di garantirsi che il sistema previdenziale di cui noi godiamo riguardi anche loro tra 30/40 anni. Vuol dire fare un gesto di riconoscimento dei loro diritti e aiutare a spianare il cammino dell’intergenerazionalità, fuori da egoismi e incomprensioni. E allo stesso tempo vivere in modo attivo la seconda parte di questo ciclo di vita sempre più lungo.
Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash