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Aspettativa di vita: quanto incide il livello socio-economico

Che l’aspettativa di vita, tanto più quella in buona salute, sia influenzata dal livello socio-economico non sorprende. Tutti abbiamo chiaro in testa, soprattutto in un momento in cui il nostro Sistema Sanitario Nazionale perde colpi, che la disponibilità di risorse economiche per rivolgersi al mercato privato saltando le liste di attesa è un assist non da poco. La nostra spesa sanitaria pubblica, oggi a 130 mld di euro, è inferiore, rispetto al Pil, a quella di Francia e Germania, mentre la spesa sanitaria così detta out-of-pocket, cioè quanto le famiglie spendono per affidarsi a cure private, è tra le più alte in Europa con una media di 2.140 pro capite, pari al 24% della spesa pubblica e al doppio di quella privata in Francia e Germania.

Che l’aspettativa di vita sia condizionata anche dal livello di scolarizzazione, a pensarci bene, nemmeno stupisce. E’ evidente che le persone con una preparazione scolastica più avanzata accedano a occupazioni meglio retribuite, oltre che meno usuranti, il che di nuovo ci porta a maggiori risorse per curarci meglio e a migliori condizioni di vita. Quello che ci lascia basiti, però, è leggere che, se a Torino, dicasi Torino, nei 40 anni tra il 1972 e il 2011 l’aspettativa di vita media è cresciuta di 7 anni per gli uomini e 6 anni per le donne, il delta tra laureati e persone con licenza elementare continua ad essere di 5 anni per entrambi i sessi.

Longevità: la situazione in Italia

Ma il dato più impressionante arriva da un recente articolo de Il Sole 24 Ore: nel 2022, la speranza di vita alla nascita per i cittadini meridionali era di 81,7 anni, 1,3 anni in meno del Centro e del Nord-Ovest, 1,5 rispetto al Nord-Est. È evidente che ciò ha a che fare con una maggiore mortalità per malattie – come il tumore che al Sud miete 9,6 abitanti ogni 10 mila negli uomini rispetto a circa 8 al Nord e 8,2 ogni 10 mila donne contro meno di 7 al Nord. Ma, e questo davvero non solo sorprende ma fa raccapriccio, anche un maggiore tasso di tasso di mortalità infantile entro il primo anno di vita, con un rapporto tra 1,8 decessi ogni 1.000 nati vivi in Toscana e quasi il doppio in Sicilia (3,3), più che il doppio in Calabria (3,9). E infine la prevenzione. Lo stesso articolo fa l’esempio della copertura degli screening femminili nell’età 50-69 anni, tra quota gratuita e quota privata, dell’80% al Nord e del 42,5% in Calabria. La responsabilità ancora una volta è purtroppo del sistema pubblico, in questo caso regionale, che vede gli screening organizzati arrivare al 60%-70% delle donne aventi diritto per fascia di età in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria, ma solo il 31% in Abruzzo e Molise, 20,4% in Campania e 11,8% in Calabria.

Questi dati purtroppo ci riportano all’inizio di questa riflessione. Le diversità socio-economiche pesano eccome, se le regioni più longeve sono anche quelle con la maggiore spesa out-of-pocket.

In attesa di arrabbiarci abbastanza per chiedere che queste disuguaglianze vengano cancellate e soprattutto non esasperate ulteriormente con l’autonomia differenziata, non ci resta che guardare a un altro dato: solo il 12% della spesa out-of-pocket delle famiglie italiane nella sanità privata è intermediata da fondi, assicurazioni o mutue. Anche come singoli cittadini abbiamo ancora molta strada da fare nella tutela di noi stessi e dei nostri bilanci familiari.

Testo a cura di Emanuela Notari

Diritto d’autore: Foto di Simon Maage su Unsplash

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